MOSALINI - CHE BANDONEÓN
In occasione del quarto articolo della rubrica dedicata ai dischi che hanno in qualche modo segnato la storia del bandoneón diamo il benvenuto per la seconda volta al maestro Juan José Mosalini. In questo articolo parliamo del suo secondo disco di bandoneón solo “Che Bandoneón”.
Ecco quindi l’intervista completa al maestro Juan José Mosalini.
Buongiorno Maestro, parliamo del suo secondo disco solista. Quando fu realizzato? Qual è la sua storia?
Il disco è dei primi anni novanta. Dal momento che il precedente disco solista venne accolto molto positivamente la casa discografica mi spinse a realizzarne un secondo sullo stesso “stile”. Per realizzare questo secondo disco mi presi tutta la calma necessaria. L’idea era quella di far partecipare colleghi bandoneonisti che scrivessero opere originali e che poi io avrei interpretato. Tutti i colleghi bandoneonisti che contattai si mostrarono immediatamente interessati, e così il progetto ebbe inizio.
Quali bandoneonisti parteciparono al progetto?
Furono diversi: Daniel Binelli (con il brano Paris desde aquí), Julio Pane (con Divagación y Tango, per due bandoneón). Partecipò Leopoldo Federico, e fu un grandissimo onore per me. Lo contattai con un po’ di titubanza perché pensavo di disturbarlo, mentre in realtà mi disse “Con molto piacere! Stai facendo molto per far conoscere il bandoneon solo, ovvio che partecipo!” E così mi dedicò il brano Un fueye en Paris.
Partecipò anche Mederos che scrisse Pumpa, una meravigliosa melodia, perfettamente nel suo stile. Invitai anche Piazzolla, però la sua composizione arrivò un po’ dopo: si prese un po’ di tempo per comporla. Quando alla fine l’ebbe conclusa, la consegnò personalmente a Federico dicendogli “Tu ti vedi con Mosalini?” Sapeva che io tornavo a Buenos Aires più o meno una volta all’anno e così non consegnò quel tango direttamente a me, ma lo ricevetti tramite Federico. Questa è un po’ la storia di quel tango, Pedro y Pedro dedicato a Maffia e a Laurenz.
Oltre alle composizioni dei miei colleghi bandoneonisti ci sono alcune registrazioni fatte con Antonio Agri. Infatti in quel periodo stavamo suonando parecchio insieme. Mi ricordo che una volta eravamo in un camerino dove c’erano Tata Cedrón, César Stroscio ed altri, e stavamo improvvisando su di un arrangiamento de Los Mareados; i presenti ascoltarono quell’improvvisazione e ci dissero tutti che dovevamo assolutamente registrarlo, e così fu.
Poi nel disco ci sono altri temi miei, per esempio Ida y Vuelta, per bandoneón e violino. Poi c’è il classico Che Bandoneón, poi altri brani ancora che sinceramente adesso non ricordo (il disco completo è ascoltabile qui, ndt). Tutto questo fu nel 1992, lo registrai in più momenti mano a mano che ricevevo le partiture. Fu necessario circa un anno per completarlo.
Come venne recepito questo disco?
Venne recepito molto bene, perché tutti quelli che che avevano scoperto il primo disco di bandoneón solo erano all’erta aspettando che ne uscisse un altro, e questo nonostante io avessi suonato in altre formazioni nel frattempo. Quando il disco venne pubblicato fu ricevuto positivamente più o meno ovunque. Fu una sorpresa anche il duo di bandoneón e violino, formazione che fino a quel momento non era stata ancora esplorata molto.
Venne fatta qualche sperimentazione sonora particolare per questo disco?
No, questo disco è totalmente “al naturale”: tutte le registrazioni furono volutamente senza effetti. L’unico brano con un po’ di elaborazione sonora fu quello di Julio Pane, perché era un arrangiamento per due bandoneón, che suonai entrambi io in playback. Tutte le altre registrazioni furono dirette, in generale era buona la prima o la seconda e così poi si mandava al disco. Venne registrato tutto nello studio di Label Blue ad Amiens.
C’è qualche altro aneddoto che vuole raccontarci?
Si, c’è un episodio abbastanza divertente, legato ad Astor Piazzolla. Quando consegnò Pedro y Pedro a Federico, gli disse “La do a te perché sei l’unico che la può suonare”. Al che Leopoldo gli rispose “va bene, ma come tu hai sempre sostenuto, una volta che hai scritto l’opera già più non ti appartiene, quindi la do a Mosalini perché è stato lui a fartela scrivere”. Astor aveva sempre quest’umorismo così, gli piaceva sempre provocare un po’ coi suoi scherzi.
Dopo questo realizzò altri dischi di bandoneon solo?
No, di bandoneon solo questo fu il mio ultimo disco. Poi però ne arrivarono moltissimi altri di vari bandoneonisti, evidentemente questi miei due dischi furono una specie di detonatore. Persino Leopoldo, che era in un certo modo l’iniziatore dei dischi di bandoneon solo, poi fece il suo disco da solista.
È interessante questa direzione che sta prendendo lo strumento, quella del bandoneón solo così come l’esplorazione di altri repertori. Parlare altri linguaggi con il bandoneón: che ne pensa a riguardo?
Il paragone è corretto: parlare altri linguaggi. Lo strumento tradizionalmente si rifà al tango, ma io penso che sia ancora tutto da scoprire, nonostante i passi da gigante fatti negli ultimi anni. Molti musicisti con orizzonti musicali diversificati e tanti compositori si stanno interessando al bandoneón. Lo strumento può tranquillamente suonare repertori di altri generi, grazie alla sua estensione e alle capacità polifoniche. A condizione però di conoscere il linguaggio specifico di ciascuno stile.
Io per esempio non farei un disco di bandoneón solo di jazz perché non è il linguaggio che controllo, nonostante abbia un po’ esplorato quell’universo musicale con il trio, però furono delle metafore, niente di più. Un disco intero di un certo stile non si realizza semplicemente suonando le note che sono scritte: bisogna conoscere gli elementi propri dello stile, e sono necessari studio e ricerca. Poco importa se si tratta di bandoneón o di un altro strumento: quando ci si dedica profondamente a un certo tipo di musica bisogna studiarla a fondo, ascoltare molto, conoscere e sviluppare il vocabolario.
Comunque la prova della versatilità dello strumento è proprio in Argentina, dove il bandoneón rappresenta non solo il tango ma anche la musica litolareña e il folklore, a dimostrazione che il bandoneón si integra rapidamente con quegli stili coi quali viene in contatto.
Sente che l’aver vissuto tanto tempo in Francia ha portato elementi musicali europei nel suo modo di fare musica, un po’ così come ha imparato a parlare francese?
Si, senza dubbio. E questo nonostante io sia sempre stato abbastanza “duro” per imparare le lingue, evidentemente non ho buon orecchio per quello. Comunque, indipendentemente da ciò, l’ esperienza europea fu determinante per la mia musica. Il contesto musicale che si viveva e si vive nelle grandi città europee è incredibile, specialmente a Parigi, dove c’erano 150 spettacoli programmati ogni giorno: uscivi da un jazz club e andavi ad ascoltare musica tradizionale africana.
In Francia i compositori erano sostenuti economicamente dalle amministrazioni, e venivano pagati per le loro composizioni. Tutto questo stimolò moltissimo e promosse il lavoro di tanti musicisti, contribuendo a un ambiente musicale vivo e costantemente rinnovato. Una persona anche solo minimamente curiosa veniva letteralmente sommerso dalle proposte musicali. Sto parlando di Parigi ma lo stesso si può dire di parecchie altre città di Francia, anche se magari in misura minore. Tutte le radio, i teatri, i Conservatori davano spazio alla creazione musicale oltre che ai concerti.
Per riassumere, effettivamente tutto questo universo di suoni ebbe un grande effetto su di me e sul mio modo di suonare il bandoneón, a vantaggio del linguaggio musicale.
Può citare un suo lavoro rappresentativo di questa contaminazione?
Si, mi riferisco al periodo di circa una decade, o poco più: il periodo del trio. Il trio era in un percorso di ricerca musicale costante. Nonostante tutti e tre fossimo interpreti di tango classico facevamo coesistere la tradizione con la sperimentazione. Tutto questo avveniva giorno per giorno, quindi il più delle volte non ce ne rendevamo conto mentre lo facevamo. Non si tratta comunque dell’unico esempio, posso dire lo stesso del quintetto con Agri: un disco intero dedicato alla ricerca.
L’esplorazione oggi è più viva che mai?